Fake news e bufale nelle etichette alimentari: il grande inganno del “senza”

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Tredici litri d’acqua per produrre un pomodoro (70g), 40 litri d’acqua per una fetta di pane (30g), 70 litri d’acqua per una mela (100g), per arrivare ai consumi d’acqua più importanti di altri alimenti, come formaggio (500 litri d’acqua per 100g), cioccolato (860 litri d’acqua per una barretta di cioccolato di 50 g) o il classico hamburger (ben 2400 litri d’acqua per un panino di 150 g). Acqua, ma anche emissioni di CO2, consumo di terra e di risorse: qual è l’impatto ambientale delle nostre scelte alimentari? Che cosa c’è dietro il cibo che consumiamo?
Queste alcune delle domande fondamentali al centro dell’intervento di Maria Vincenza Chiriacò, ricercatrice presso la Divisione IAFES – Impacts on Agriculture, Forest and Ecosystem Services della Fondazione CMCC, che lo scorso 21 marzo 2019 ha partecipato all’evento alla Camera dei Deputati Fake news e bufale nelle etichette alimentari – Il grande inganno del “senza”.
Un evento per discutere degli impatti sulla salute e sull’ambiente degli alimenti che portiamo ogni giorno sulle nostre tavole, a cui sono intervenuti, oltre alla ricercatrice CMCC Maria Vincenza Chiriacò, l’On. Beatrice Lorenzin, il Prof. Pietro Paganini, John Cabot University, il Prof. Franco Casali, Centro Studi e Ricerche “Enrico Fermi” e Giacomo Bandini, Competere – Policies for sustainable development.

La ricercatrice CMCC ha illustrato l’impatto ambientale dei prodotti alimentari, e in particolare le problematiche che ruotano attorno al cibo prodotto “senza” (senza olio di palma, senza glutine, senza grassi aggiunti, etc).
Quali strumenti ha il consumatore, guardando l’etichetta, per capire qual è l’impatto ambientale di un alimento, preparato con determinati ingredienti, o espressamente realizzato senza alcuni di essi? “Attualmente esistono diversi indicatori sviluppati dalla scienza”, spiega la ricercatrice Maria Vincenza Chiriacò, “come gli indicatori di carbon footprint, water footprint ed ecological footprint, misurati attraverso un approccio denominato di LCA – Life Cycle Assessment (analisi del ciclo di vita), in grado di analizzare tutto il processo di produzione di un alimento – dalle materie prime all’arrivo sulle nostre tavole – e di dirci il suo impatto ambientale in termini di consumo di carbonio, acqua, terra e risorse. Purtroppo non sempre, anche quando le aziende si avvalgono di questo strumento, informazioni di questo tipo sono poi disponibili per i consumatori.”
Qualcosa però sta iniziando a muoversi: sempre più frequenti sono le informazioni riportate in etichetta relativamente agli impatti in termini di emissioni, per esempio legate al trasporto (“a km zero”).
Un’informazione riportata sempre più frequentemente in etichetta è poi quella dei prodotti “senza”, spesso acquistati senza una reale necessità da parte dei consumatori perché ritenuti più benefici per la salute. In realtà questo non sempre è vero; per capirlo, dovremmo sempre chiederci se l’ingrediente eliminato sia stato sostituito (e con che cosa), e in caso affermativo quale sia l’impatto ambientale e per la salute dell’ingrediente sostitutivo.

Un caso particolare e molto controverso è rappresentato dai prodotti “senza olio di palma”. La ricercatrice Chiriacò ha cercato con il suo intervento di capire se “senza olio di palma” voglia dire con un maggiore o con un minore impatto per l’ambiente.
“Il grande impatto ambientale dell’olio di palma è dovuto al fatto che nei decenni passati vaste aree soprattutto dell’Indonesia e della Malesia sono state deforestate per produrre olio di palma”, ha spiegato la ricercatrice Chiriacò. “Se però esistesse il modo di produrre olio di palma in maniera più sostenibile, evitando di coltivarlo su aree deforestate e utilizzando meno fertilizzanti e pesticidi chimici, le emissioni legate alla sua produzione probabilmente si abbasserebbero notevolmente, e dal momento che l’olio di palma ha rese molto elevate, potremmo anche aspettarci che finisca per essere uno degli oli con l’impatto ambientale più basso. Al momento però mancano studi approfonditi in grado d’inquadrare il problema in tutte le sue molteplici sfaccettature: occorrono ricerche per approfondire la questione e confrontare seriamente l’impatto dell’olio di palma con quello di altri oli sostitutivi. La Fondazione CMCC avrebbe le competenze scientifiche necessarie per realizzare ricerche e valutazioni di questo tipo.”

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