Ragionare in termini di individui, non di paesi, perché gli stili di vita determinano in buona misura le emissioni di CO2, indipendentemente che ci si trovi in Cina, negli Usa o in Europa.
Da Princeton, un gruppo di studiosi (tra cui l’italiano Massimo Tavoni, ricercatore senior CMCC e FEEM) lancia una ricerca con una proposta che potrebbe risultare decisiva per superare l’impasse di un accordo globale sul clima che tiene lontane le posizioni dei paesi ricchi e dei paesi in via di sviluppo.
L’articolo è stato pubblicato per la prima volta il 6 luglio 2009 dalla importante rivista Proceedings of the National Academy of Sciences con il titolo “Condividere le emissioni globali di CO2 tra 1 miliardo di grandi emettitori” (Sharing Global CO2 Emissions Reductions Among One Billion High Emitters) ed è stato ripreso dalla stampa americana; è la descrizione di un nuovo sistema che gli autori sperano saprà guadagnarsi la fiducia dei decisori globali fino ad offrire un contributo concreto verso un accordo mondiale sul clima che al momento sembra assai lontano. Uno degli elementi principali che frenano l’accordo è la divisione di responsabilità sulle emissioni di CO2, e di conseguenza sui limiti e gli oneri da fissare per ciascun paese.
La ricerca propone di andare oltre il conteggio pro capite delle emissioni e offre un calcolo diverso, basato sulla distribuzione di grandi emettitori nel mondo.
In altre parole, gli autori hanno realizzato un metodo che porta a considerare le emissioni prodotte da ogni singolo individuo come il modo migliore e più accurato per calcolare, in maniera più equa, accurata ed efficace di quanto non si faccia ora, la responsabilità di ciascuna nazione nel tagliare le proprie emissioni. Questo non vuol dire che ogni singolo individuo deve entrare nel calcolo delle emissioni, ma che questi calcoli vanno a formare la base di una formula più equa. Tra le strategie attualmente in uso, quelle che utilizzano medie nazionali di consumo energetico sono considerate ampiamente incorrette perché non tengono conto delle emissioni di coloro che inquinano di più o meno della media considerata.
La maggior parte delle emissioni di CO2, proviene da fasce di popolazione con reddito medio-alto il cui stile di vita è caratterizzato, ad esempio, da viaggi in aereo, uso intensivo dell’automobile e largo utilizzo di sistemi necessari a riscaldare o raffreddare case grandissime. “Secondo i nostri calcoli – dicono i ricercatori – la metà delle emissioni di gas serra prodotte nel 2008 proveniva da solo 700 milioni di persone”.
Utilizzando i dati sulla distribuzione del reddito della Banca Mondiale e sfruttando il collegamento che esiste tra quantità di emissioni e livello di reddito, gli autori sono stati in grado di determinare come le emissioni individuali sono distribuite sia a livello nazionale che a livello globale. Poi, facendo sul 2030 proiezioni basate sulle previsioni di emissioni e di crescita demografica, riescono a raffigurare il modo in cui nel futuro saranno distribuite le emissioni tra 8,1 miliardi di persone.
Si tratta di un metodo che più di altri riesce a stabilire un limite uniforme di emissioni che i singoli individui non dovrebbero superare.
Ad esempio: se si raggiungesse un accordo globale che imponesse di mantenere nel 2030 livelli di carbonio nell’atmosfera simili a quelli attuali, secondo i calcoli degli autori, la necessaria riduzione globale di emissioni sarebbe ottenuta se le emissioni individuali non superassero le 11 tonnellate di CO2 l’anno. Calcolando le emissioni di coloro per i quali è previsto un superamento di questo limite, si può ricavare un obiettivo di riduzione delle emissioni per ogni paese. Continuando sull’esempio fatto, si può prevedere che nel 2030 ci sarà circa 1 miliardo di emettitori elevati (high emitters) equamente suddivisi tra Usa, il resto dei paesi OCSE, la Cina e il resto dei paesi in via di sviluppo.
L’articolo inoltre dimostra che è possibile combattere la povertà indipendentemente dalle strategie di riduzione delle emissioni; infatti gli autori calcolano che combattere l’estrema povertà consentendo a circa 3 miliardi di persone di soddisfare il proprio fabbisogno energetico di base con carburanti fossili, non influirebbe sul sistema di riduzione globale di emissioni provenienti da fonti fossili; piuttosto sarebbe richiesto lavoro addizionale da parte di coloro che emettono di più.
Lo studio, tra i cui autori figurano il prof. Stephen Pacala e, Robert Socolow (noti anche al grande pubblico dal momento che Al Gore ha citato il loro studio su “stabilization wedge”) e l’economista italiano Massimo Tavoni fa parte del progetto Carbon Mitigation Initiative, che ha sede a Princeton, ed è un esempio di collaborazione tra giovani provenienti da discipline diverse (fisica, economia, scienze politiche) che si avvalgono di “strategiche intrusioni” da parte di veterani della ricerca. Massimo Tavoni e’ anche ricercatore senior presso la Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e il Centro Euro Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici (CMCC).
Per saperne di più:
- la presentazione della ricerca (pdf) fatta da Massimo Tavoni all’edizione 2009 dell’International Energy Workshop;
- la rassegna stampa americana (pdf) sulla pubblicazione dell’articolo su PNAS;
- l’articolo di Newsweek del 7 luglio 2009 (pdf)